NON SI VIVE DI SOLO PANE

NON SI VIVE DI SOLO PANE

Lanciata
15 luglio 2022
Firme: 175Prossimo obiettivo: 200
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Perché questa petizione è importante

Lanciata da Francesca Citi

Riflessione aperta alla Cittadinanza, ai Comuni, alle Centrali Cooperative, alla Regione Emilia - Romagna, alle Cooperative Sociali, alle Scuole, alle Associazioni Territoriali, alle Famiglie, agli Utenti Diretti dei Servizi Educativi tutti, agli Educatori Professionali e non, ai Servizi Territoriali – di Bologna, Casalecchio di Reno e zone limitrofe – riguardo agli accadimenti degli ultimi mesi, in merito all’apertura e aggiudicazione di Gara d’Appalto ASC InSieme di Casalecchio alla Cooperativa Sociale Aldia di Pavia e in merito all’art. 37 del CCNL delle Cooperative Sociali.

 

L’EDUCATORE, L’EDUCATRICE CHI SONO COSTORO?

La professione dell’Educatore è piuttosto complessa. La trasversalità spesso viene definita come il fattore distintivo e peculiare del suo specifico ruolo all’interno del settore in cui opera (sociale, sociosanitario, scolastico, socioriabilitativo, anziani, disabilità, fine della vita, neuropsichiatria, etc.). In “soldoni”, o con parole più semplici, come si suole dire, l’educatore “è” (o “sta” a) una specie di snodo ramificato, collegato a “sistemi” diversi che ruotano, talvolta in modo ampiamente indipendente o altamente “dissonante”, attorno a lui, e di cui egli fa essenzialmente parte e a cui deve analogamente rispondere del proprio operato. Se si prende come esempio “la scuola”, l’educatore è il primo anello di congiunzione con l’utenza: il “ragazzo/bambino di cui si prende cura”, in rapporto alla classe, agli insegnanti di sostegno, agli insegnanti di ruolo, alla scuola, in senso generale, in cui entrambi (educatore e educando) sono calati nel quotidiano. Ma non solo. L’altro ramo si apre sulla famiglia. La figura educativa si interfaccia con la famiglia del discente. Interagisce, ne raccoglie i bisogni, ne registra le aspettative rispetto al figlio (ci si riferisce, in questo caso, a figli con disabilità intellettive o motorie, o entrambe; all’autismo, a patologie di derivazione genetica, a disturbi comportamentali di eziopatogenesi varie, etc.). Non sempre il linguaggio delle famiglie è allineato o concorda con il linguaggio o il modello comunicativo utilizzato all’interno di un determinato ambiente scolastico. Ecco che la funzione dell’educatore diventa allora anche quella di “mediare”, “tradurre” talvolta o “parafrasare”, cercando di riportare il discorso al concetto della ricerca, comune a tutti gli interlocutori, di un senso specificamente orientato all’evoluzione di un futuro concretamente possibile e fruibile da parte dell’educando. L’educatore deve fungere da “commutatore di corrente” o da “presa tedesca”, a volte, perché? Perché elaborare piani di comunicazione a linguaggio comune è un utile, fondamentale, essenziale strumento di lavoro, che facilita e potenzia il Progetto Educativo e/o Formativo Individuale stesso del ragazzo a cui è rivolto. È strettamente correlato alla sua evoluzione, intesa come sviluppo psicologico e come crescita, prima ancora che come studente, come persona. Quindi l’educatore risponde alla famiglia. Quindi l’educatore risponde alla scuola tutta. Ma questa figura non opera (non può e non deve per definizione operare) in un “a solo”. È una figura necessariamente collegata a strati diversi di contesti, mani, facce, relazioni, pensieri, volontà, indicazioni, direzioni, obblighi, riferimenti, poteri e perfino committenze diverse, anche all’interno di uno stesso ambiente.

 

LE COMMITTENZE

Ogni incarico è legato ad un contratto. Ogni contratto è legato ad un “pacchetto orario”. La prima committenza, intesa come primo diretto rapporto con il “datore di lavoro” è, di norma, una Cooperativa Sociale, che al suo interno ha referenti pedagogici, coordinatori dei servizi, una direzione amministrativa, un presidente, un responsabile per ogni servizio erogato ed erogabile... L’educatore a quest’ultima risponde in termini di regole, comportamento, puntualità, credibilità, affidabilità, formazione, professionalità: l’educatore, inteso come “ogni educatore che esista”, risponde di sé al proprio datore di lavoro nei termini sopra descritti ma anche nei termini di politiche, vision, mission, che non sono parole scritte su un sito per bella posta, ma rispecchiano, di solito, esattamente ciò per cui quella stessa determinata cooperativa è nata e si è costruita nel tempo. Rispecchiano l’identità, le radici e la visione potenziale per il futuro di una specifica aggregazione di persone, che si chiamano soci, spesso (ma a volte sono soltanto dipendenti) e che condividono, formalmente ed essenzialmente, nel concreto e nel pensiero, gli stessi ideali. Tornando alla committenza: rispondere alla committenza può essere difficile quando l’idea o l’ideale dell’educatore si discosta, di poco o di molto, dalle direzioni fornite dall’alto (eventuali impostazioni teoriche/pedagogiche di base della cooperativa sociale di riferimento, o altro): la capacità di trasformazione, di versatilità e trasversalità dell’educatore infatti non è dissociabile - pena la propria spersonalizzazione, perdita d’identità, derealizzazione - dal profondo senso critico, dai propri valori fondanti, innanzitutto come persona poi come professionista specificamente formato, dalla capacità di autoriflessione, di costante ricerca di oggettivazione, monitoraggio e valutazione del proprio operato, delle proprie scelte educative, da solo e insieme ai referenti tecnici di riferimento. Questi ultimi si delineano come una “seconda committenza”, in sostanza, anche se non c’è un reale rapporto di subordinazione. Ma nel lavoro dell’educatore gli obiettivi da raggiungere e su cui viene impostato tutto il progetto educativo, sono condivisi, normalmente e inequivocabilmente, non solo con la famiglia, la scuola e i referenti pedagogici di cooperativa, ma anche con i referenti clinici e/o sociali, a seconda dei servizi coinvolti nella vita del ragazzo/bambino. Gli obiettivi e le finalità possono essere discussi. Ogni obiettivo può essere elaborato, confrontato, discusso, smussato, sezionato, ma non eluso. Non ci si può sottrarre alla realizzazione di un obiettivo. Neanche se, una volta concluso il confronto, non si condivide appieno: pena, la rinuncia all’incarico, il dover fare una scelta forte e forse difficile di tipo deontologico o d’impostazione teorica o per altra ragione; una scelta talvolta penalizzante al punto da non poter essere propriamente seguita. Obiettivi non condivisi appieno a lungo termine (con la “rete” degli “attori” sopra descritta, nonché rispetto all’utente finale, con cui in definitiva ci si trova a strettissimo contatto diretto, in un continuo dialogo inter e intra relazionale e di autoriflessione) portano disagio, stress psicologico, frustrazioni, emozioni represse e così via fino al burn out, per tagliare corto e dare indicativamente una direzione di massima di arrivo. L’immagine a ciò più consona, in senso metaforico: quella del piccolo criceto che corre su una ruota, che non porta mai da nessuna parte. Afinalistica, inutile. Quella dell’educatore è una tra le professioni più a rischio di burn out. Tornando a noi e alle committenze, una terza committenza (non ultima) è l’istituzione che assegna, distribuisce le ore con cui verrà svolto il progetto educativo. La committenza delle committenze. I comuni, nel caso della scuola ma anche di interventi relativi al sociale, stanziano un monte ore per “coprire” le esigenze di ogni singolo ragazzo/bambino. Ore assegnate per garantire sostegno a tutti, nel modo più equo possibile, in relazione alla gravità della patologia e delle reali esigenze osservate attraverso le relazioni educative, scolastiche, i colloqui con le famiglie, le relazioni dei clinici, degli assistenti sociali, dei referenti dei vari servizi, dei colloqui e delle relazioni dei coordinatori e/o referenti pedagogici delle cooperative, e così via. Da tutti coloro che operano in rete sul territorio, in prossimità dell’utenza tutta, in definitiva, dalla nascita all’adolescenza, fino all’età adulta e all’ingresso nel mondo del lavoro. Ma su questo ci torneremo più tardi. La committenza in questo caso rispetta un budget. Ogni ora ha un costo. Questo costo è fissato al momento della gara d’appalto, così come la quantità delle ore totali. Le cooperative rispondono direttamente a questo tipo di committenza. Hanno rapporti diretti. L’educatore riceve le ore tramite l’intermediazione della cooperativa. La cooperativa e i suoi educatori devono rendere conto del proprio operato alla committenza pedagogica ed economica dei comuni, in questo caso. Alla Neuropsichiatria, nel caso di servizi finanziati da quest’ultima, che funziona nello stesso modo, più o meno, descritto poc’anzi seppur in modo molto semplicistico e a grandissime linee. La pallina/pedina più piccola del gioco è l’educatore, con di fianco il proprio educando, ulteriore ma non ultima “committenza” diretta. La cartina tornasole di tutto il sistema. Benessere, autonomia, indipendenza, crescita, sviluppo psicologico, emotivo e di spessore, potenziamento di capacità reali e/o emergenti sono il risultato sulla persona - oltre che delle potenzialità implicite e intimamente e intrinsecamente legate alla persona stessa del ragazzo/bambino di cui qualcuno si prende cura per un periodo di tempo più o meno lungo – anche del lavoro condiviso con i “sistemi” di cui sopra (famiglia, scuola, coordinatori di coop., referenti dei comuni, referenti sociali, della neuropsichiatria, eventuali doposcuola, o altro, educatori). L’educatore opera a tutto tondo, al centro della ruota su cui si innestano i sistemi sopra descritti, tra loro interagenti.

 

IL SENSO DELL’EDUCARE

La figura educativa va al lavoro come portatore del “senso” descritto sopra. Può influenzare tutti i sistemi. Può essere strangolato letteralmente da ogni singolo sistema o dall’ingranaggio, se non è sufficientemente forte (dal punto di vista psichico, di personalità; o morale, di tenuta, di presenza). L’educatore può morire d’inesperienza. Allo stesso modo, senza formazione è inapplicabile qualunque tentativo di investimento in una qualunque forma di proposta progettuale, che abbia lo scopo di portare un qualunque reale “cambiamento”: nel senso di crescita, miglioramento, cambio di stato per l’utente finale. Perché è questo il fine ultimo: non lasciare le cose come sono, ma educare. Non, “insegnare”; non, “far imparare”; non, “allenare”; non, “assistere”; non, “badare”. L’educatore deve “educare”. All’interno di un dinamicamente complesso e a volte fragile equilibrio, nel frastuono di voci spesso discordanti, l’educatore deve educare: nel senso latino di “educere”, tirare fuori, estrarre. Ma che cosa deve tirare fuori? Dove deve “condurre”? Deve estrarre ciò che è in potenza. Riconoscere le basi di forme di potenziali empowerment futuri. Credere nelle “forme”, nelle “strutture” appena percepibili, o forse solo intuite. Osservare, cogliere e riconoscere il passaggio fulmineo di barbagli di luce negli occhi opachi, fino ad un determinato istante, di qualcuno e concedergli fiducia, fornirgli appiglio, agganciarli. “Renderli” poi compatti, forti; quindi voltarsi verso l’orizzonte e costruire strumenti perché essi possano oltrepassare quella linea blu e diventare altro, quello che i loro stessi sogni esigono di diventare; fornire strumenti per portare ad essere un po’ più liberi “di essere” e “di esistere” da soli, in modo autonomo e indipendente, di crescere, di desiderare. Questo è il mestiere dell’educatore. Essenzialmente: credere in un sogno. Credere nei sogni. Ed è questo il senso dell’evoluzione dell’educatore e dei ragazzi/bambini che incontra di volta in volta nella sua vita professionale. Fornire strumenti per sognare e strumenti concreti per realizzare i propri sogni nel continuum dell’evoluzione personale, fino a quando questa è possibile. È fondamentalmente questo a farci sopravvivere. Questo nutrimento altro, che non è solo pane, rispetto al pane quotidiano che dobbiamo necessariamente portare in tavola con il sudore delle nostre vite, come ogni essere umano fa. Ma è più forte il sogno, sempre. Perché lo stipendio di un educatore non raggiungerà mai il valore che egli nella sua professione spende ogni giorno per raccogliere i sogni e tenerli insieme, per credere ad ogni singolo piccolo, talvolta infinitesimale, passo compiuto, rispetto al potenziale umano che ha di fronte. È più forte il sogno, che permette la fiducia, la resilienza, la costanza, la perseveranza, lo spessore, la volontà, la forza, la continuità. Continuità legata a conoscenza, resilienza, territorio, sistemi, rete. 

 

IL LEGAME

Non è possibile essere di passaggio. O che questa professione possa essere gestita e affidata a “sistemi di passaggio”. L’educatore non è mai di passaggio. Per “tirare fuori”, per “educere”, per condurre su percorsi solidi e certi, l’educatore deve essere stabile. Trasmettere stabilità all’altro, in primis, creare relazione stabile, affidabile, autentica, sana, consapevole, profonda. Le stesse qualità che devono necessariamente riverberare sulla famiglia, sul contesto, sulla scuola tutta, nei rapporti con i servizi tutti, e con le figure che li rappresentano. Continuità, stabilità, resilienza, territorio, rete. Una cooperativa sociale che “fornisce il territorio di educatori” non può essere sradicata dallo stessoterritorio in cui gli educatori e i contesti appartengono, perché senza radici forti sul terreno nessun albero cresce. Nessun progetto dotato di senso può attecchire realmente e portare valore aggiunto alla società in cui si è formato e per cui è nato. In relazione costante con il contesto, con i contesti, con i bisogni concreti e cogenti delle famiglie e dei cittadini, delle associazioni territoriali che li abitano. Perché nasce da lì e lì deve alimentarsi e fornire nutrimento. L’educatore “costruisce sentieri” sicuri, progetta “contenitori” e “contenuti” sociali. Fornisce sicurezza, credibilità, sostegno e fattivamente mette in pratica tutto ciò. Non può essere momentaneo, né tantomeno può essere momentaneo il suo progettare, proprio in funzione del suo legame con le necessità della crescita a trecentosessanta gradidell’individuo con cui opera sul territorio. Anche il territorio deve essere stabile, così come è fondamentale per ogni utente sentirsi parte di un territorio, sentire di appartenere ad un territorio e avere la possibilità di influire su questo, di uscire e portare il proprio contributo sul proprio territorio di appartenenza, di avere un ruolo sociale, attraverso la formazione lavorativa, l’inserimento attraverso gli stage, i laboratori protetti, le borse lavoro. Tutto questo è legato alla stabilità, alla continuità, alla presenza costante di figure in relazione stabile finalizzata alla crescita e all’impiantare legami e radici stabili per l’utente sul territorio, fino al “dopo di noi”. Tutto questo non può essere scisso dalla formazione e dalla conoscenza profonda del territorio e delle sue possibilità effettive e fattive concrete. Non può essere gestito da un “altrove” dislocato. Per poter realizzare tutto questo è essenziale, necessario, imprescindibile avere contezza reale e concreta del territorio e delle persone su cui e attraverso cui si opera. Non si può seguire lo sviluppo, l’evoluzione di una persona, dalla nascita all’inserimento lavorativo, se non si conoscono a fondo le mappe, i percorsi, le strade percorribili specificamente per quella determinata persona in quel determinato e specifico luogo e momento storico e socioculturale. E non si può gestire un “comparto”, come quello scolastico, tagliando la sua diretta e intrinseca “connessione” con tutti gli altri.

 

DOMANDE

Ci stiamo avvicinando al punto centrale di tutto questo ampio discorso. Quale sarebbe il senso di essere di passaggio? Di costruire relazioni di passaggio? Che significato ha o avrebbe, in fin dei conti, anche per ciascuno di noi, intessere relazioni di passaggio? Non sarebbe una contraddizione in termini? Mi chiedo. In quale luogo o in quali luoghi interessano relazioni di passaggio? In quale luogo hanno un senso relazioni di passaggio? Relazioni che si sganciano dal contesto, che non mettono radici, che non hanno radici... Quale tipo di relazione non ha bisogno di continuità, stabilità, territorio, quindi di appartenenza, di intimità, quindi di legame? Se passo in rassegna, nella mia mente, una carrellata di situazioni di passaggio dove la relazione non ha assolutamente valore, me ne vengono in mente alcune di veramente poco edificanti, ma che in ogni caso richiedono un minimo di continuità e di stabilità, se non altro dal punto di vista economico. Non riesco a trovare un’etica cooperativa, educativa, di spirito di servizio, di cura, del prendersi cura autenticamente dell’altro, nell’essere di passaggio. L’utilitarismo però è il tipo di rapporto con il mondo che mi sembra più utile a descrivere l’assenza di relazione finalizzata al legame come inteso sopra. L’utilitarismo spazza via continuità, rete, territorio, stabilità, relazioni, futuro. Per l’utilitarismo non è importante “chi”, ma è importante “cosa”, e soprattutto, non “come”, ma “quanto”. È veramente equa una legge che tutela i lavoratori in caso di cambio appalto se poi in concreto è ipotizzabile credere che, in sostanza, finisca per essere utilizzata a fini unicamente utilitaristici, su un territorio del quale non si ha profonda conoscenza, continuità, stabilità, pregressa progettualità, legame, rete? Una legge che permette di utilizzare le persone, i loro progetti, il loro “know how” in quanto professionalità stabili, profondamente radicate, che hanno promosso nel tempo progettualità direttamente legate al territorio a cui le proprie cooperative appartengono e sono nate, semplicemente dando loro una “veste e un nome diverso”? Scorporandole dal proprio sistema di riferimento, a cui sono invece imprescindibilmente legate? Si può mai permettere che oggi, in Emilia-Romagna, in ambito sociale - di servizi di integrazione scolastica e annessi, legati a ragazzi e bambini con certificazione - così come di eventuali servizi sociosanitari magari, si alimentino meccanismi di questo tipo? Trattando gli educatori - e il loro contesto di lavoro incluse le fragilità su cui operano – alla stregua di “dislocazioni aziendali”? Si può mai “giocare” in modo utilitaristico in questo settore specifico? Sostenere questo sistema, che trasforma una legge di tutela in legge capestro, significa letteralmente “spaccare” il territorio stesso in cui si opera. Distruggere le “reti”. Sciogliere i legami che tengono insieme le “reti”, gli utenti, le loro trame, la loro storia, la loro vita. Significa dissodare subito dopo aver seminato. L’esatto contrario del welfare. Serve una legge che tuteli il lavoro e l’investimento (e reinvestimento) sul territorio, che tuteli le comunità, il corpo sociale, le reti, le buone pratiche, i progetti ideati e costruiti direttamente per il territorio e sul territorio in condivisione trentennale con le Istituzioni locali; che tuteli e ripaghi i lavoratori dell’investimento morale ed economico sulla propria formazione. Serve rendere manifesto e tangibile il riconoscimento professionale a pieno titolo. Serve non sovvenzionare o alimentare sistemi di rottura del tessuto cooperativo sociale, perché significa rottura delle reti sociali territoriali e si muove in moto contrario al reale benessere dei cittadini, e soprattutto di quelli più fragili. È altamente divisivo un sistema che consegna l’welfare alla globalizzazione e digitalizzazione dei servizi e dei rapporti sociali.


Bologna, 14 luglio 2022
Francesca Citi, Educatrice Professionale
in condivisione con Educatori Professionali - e non - e Famiglie del territorio di Bologna, Casalecchio e zone limitrofe

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